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Dublino – Le facce nascoste di Dublino

Dublino. Alle prime luci dell’alba Temple Bar, il quartiere adrenalico di una capitale di giovani studiosi e nottambuli, è immerso in uno strano silenzio. La raccolta dei rifiuti è rapidissima e nel dedalo di stradine e vicoli imbottiti di pub, bar, boutique, ristorantini, restano poche tracce della dolce vita irlandese. Tutto è pulito, ordinato: pronto per il prossimo turno della movida. Eppure , se giri l’occhio con attenzione, se chiedi qualche notizia ai camerieri dei pub più tradizionali, come O’Neil o The Duke, afferri al volo la novità di un’austerity che non risparmia proprio nessuno. Qui il pub è il locale pubblico per eccellenza, secondo le statistiche se ne contano uno ogni quattrocento abitanti, ma diventeranno meno della metà entro la fine del 2010. E la strage di una tradizione secolare, di uno stile di vita collettivo, in fondo non dispiace alle famiglie dei teenager di Dublino. Il pub, infatti, d’inverno e d’estate ti accoglie con il suo calore , con i tavoli di backgammon sempre apparecchiati, con birre e cocktail da scolare come l’acqua del rubinetto. Ecco perché la gioventù di Dublino, forse la più colta d’Europa, è anche la più colpita dal flagello delle morti per alcol. Fino a ieri, negli anni del boom economico che sembrava non finisse mai, erano soltanto i vescovi a protestare contro la “strage silenziosa” dei ragazzi alcolisti. Oggi, con una crisi che ha colpito al cuore il modello di sviluppo della tigre celtica, in fondo il tramonto del pub, della sua ritualità trasgressiva e permissiva, non dispiace. E spaventa molto meno degli stipendi tagliati nel pubblico impiego (meno 7 per cento) e nel settore privato (meno 30 per cento). Temple Bar, che condensava l’euforia di un paese di coltivatori di patate diventati ricchi a colpi di speculazioni immobiliari, di palazzi comprati venduti decine di volte nel giro di pochi mesi, assume così le sembianze di un quartiere generale del benessere drogato colpito e quasi affondato. La tradizione, invece, regge come il granito nel meraviglioso parco del Trinity College, l’università che ha sfornato generazioni di irlandesi influenti nel mondo e attira ogni anno più di mezzo milione di visitatori che non vogliono perdersi un’occhiata al Book of Kells, manoscritto miniato dei Vangeli. Al Trinity l’orologio del tempo è fermo, il saliscendi della congiuntura economica non sposta di un millimetro le abitudini di un tempio anglosassone dello studio che premia i migliori e riconosce i talenti molto prima dell’età lavorativa. Ogni mese, per esempio, i lord iscritti all’Associazione dei laureati più anziani si riuniscono per una serata conviviale: bevono vino francese e brindano, tutti rigorosamente in smoking, al futuro di un paese , sempre fornito di una sua autonoma e sorprendente energia vitale. Le facce di Dublino sono tante, e fai fatica a raccoglierle tutte in uno spazio urbano così piccolo, di una cittadina che senti metropoli, con i suoi profumi da culla di una cultura cosmopolita. La febbre delle speculazioni immobiliari, che ha trascinato l’Irlanda nel baratro di un’economia il cui reddito per quasi il 20 per cento è formato dal trading in questo settore, non ha cancellato completamente le impronte dei geni del Novecento irlandese. La casa di Bernard Shaw è un gradevolissimo museo; nel quartiere vittoriano, a Nord della città, segui ancora l’ombra di James Joyce e dei luoghi dove ha studiato, dal Belvedere all’University College; lo studio di Francis Bacon è la fotografia del disordine esistenziale dell’artista che qui non fu riconosciuto per la sua grandezza, come Oscar Wilde, osteggiato e incarcerato per la sua omosessualità, e ricordato con una statua, simbolo di una pacificazione tra il mito letterario e la sua terra. Le facce di Dublino sono quelle del futuro che ha ingoiato il passato. Senza rancori e talvolta anche con una certa spudoratezza mercantile. L’antica fabbrica della birra Guinness, icona nazionalpopolare, dove nel momento di massimo splendore lavoravano oltre 5mila persone, è stata trasformata in una Disneyland irlandese. I turisti fanno ore di fila, si lasciano saccheggiare con un ticket-pedaggio di 15 euro a persona (senza sconti per i bambini) soltanto per attraversare i piani di un finto museo industriale e per sorseggiare una pinta di birra al Gravity bar, all’ultimo piano dell’edificio centrale della cittadella, dove hai almeno puoi dare uno sguardo d’orizzonte all’intera città. D’altra parte, un’autentica fabbrica fordista non poteva che diventare un luogo del marketing turistico nella capitale di un paese che, per incrociare il benessere, ha voltato le spalle all’industria manifatturiera per puntare sul biotech (ci sono 170 imprese straniere sul territorio irlandese, attirate anche da una bassa tassazione degli utili), sul Viagra (le pillole dell’amore eternamente giovane sono made in Ireland) e innanzitutto sulla corsa agli immobili che poi si è trasformata in una gigantesca bolla speculativa. Nella Dublino di oggi, dove la metà degli abitanti ha meno di 30 anni, la modernità è una rete di metropolitana e di treni veloci che raggiunge piccoli centri fino a 100 chilometri di distanza dalla capitale, dove trovi giganteschi centri commerciali con prodotti discount. E dove l’Europa si avvicina a grandi passi, perché il doloroso salto dal boom all’austerity ha prodotto anche questo risultato: il paese che, con appena quattro milioni e mezzo di abitanti, un anno fa ha liquidato con un referendum popolare il trattato di Lisbona paralizzando il futuro di una comunità di 500 milioni di europei, adesso vede nell’Unione la più solida zattera per il suo salvataggio.

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